martedì 4 agosto 2009

ANCORA SULLA RU486


Ho trovato sul sito dell'Unità questo contributo di una donna che ha preso la famigerata RU486.
Lo riporto integralmente, tanto per chiarire che capire cosa significhi per una donna il negarsi una maternità è argomento che noi uomini non abbiamo assolutamente gli strumenti per comprendere. Ma anche noi possiamo scegliere: attestarci sulle posizioni dei sedicenti "difensori della Vita" che si attaccano all'embrione come ad un feticcio arrivando a disprezzare quelle forme di vita che embrione non sono ma anzi sono deputate dalla Natura a gestire col proprio corpo il corso della nascita, OPPURE sostenere nella sofferenza quelle donne che devono fare una scelta. Con amore, con rispetto e con forza. Affinchè possano vivere la maternità che sceglieranno di avere con gioia e consapevolezza.

Buona lettura:

La storia di E: «Ho abortito con la pillola Ru486»

di Eleonora Guerini

La teorizzazione della vita, di quella vissuta intendo, mi è sempre sembrata nefasta. Un uomo che parla di aborto è un ossimoro e un insulto all’intelligenza. Quella vera, che passa tra le maglie del sentire. Un uomo che crede di poter stabilire cosa è giusto e cosa non lo è parlando di aborto è un uomo che vive nella presunzione di sapere ciò che invece solo la compassione, che richiede il tentativo di comprendere e non di giudicare, permette. Un uomo che conduce una guerra. Una guerra definita culturale contro l’aborto e che invece è la guerra dell’uomo contro la donna, contro la libertà di poter scegliere. Contro la maternità come scelta d’amore e non come imposizione culturale.

«Il piacere sessuale scardinato da qualunque amore» di cui parla Ferrara sul Foglio di ieri mi sembra, oltre che una banale adesione al più misero dei moralismi, qualcosa che ha storicamente più a che fare con gli uomini che con le donne. Essendo un maschio, «il godimento libertino» di cui scrive non ha certo quell’accento così violentemente accusatorio che tocca a noi femmine, in fondo un po’ puttane.

Ho 36 anni, vivo a Roma, e tre anni fa, nel marzo del 2006, ho abortito utilizzando la RU486. Ho avuto il mio primo rapporto sessuale a 16 anni. Fino a 25 anni, quando con il mio compagno abbiamo deciso di avere un figlio, ho fatto molto l’amore, a volte per amore, a volte per piacere, convinta che il piacere debba far parte della nostra vita. Non sono rimasta incinta prima perché sono responsabile e ho sempre usato la pillola. Fino a quando, per problemi ormonali, non ho più potuto. Dopo un calvario che mi ha costretta a sperimentare diversi metodi anticoncezionali sono approdata al meno invasivo, per niente sicuro, ma tanto caldeggiato dalla Chiesa, «Persona». Sono rimasta incinta.

Avevo 33 anni. E per quanto amassi l’uomo con cui avevo una relazione non pensavo che avere un secondo figlio con lui fosse una cosa giusta. Perché non basta l’amore tra due persone per fare un figlio. Perché un figlio è una scelta di vita, una scelta d’amore. Condivisa e voluta. Perché con un figlio la tua vita cambia e il cambiamento deve essere sorretto da una decisione ferma, consapevole, d’amore. Non dalla retorica del diritto alla vita. Perché senza amore poi non è vita. Perché la maternità è una condizione totalizzante che non può essere il frutto di uno sbaglio. Ma l’essere umano, non certo Ferrara, sbaglia. E di fronte allo sbaglio bisogna avere la forza e il coraggio di prendere una decisione che tenga conto di tutti i fattori.

Si può amare un uomo e pensare che non sarebbe il padre che vorresti per i tuoi figli. E si può decidere che un figlio, con quell’uomo, non lo si vuole avere. Così è stato per me. Quando ho capito di essere incinta ero alla quinta settimana. Un amico di Torino mi suggerì di telefonare a Viale, alle Molinette di Torino, dove era in corso la sperimentazione sulla Ru486. Gli raccontai l’accaduto, gli dissi che un figlio frutto di «Persona» non lo volevo, che non volevo soffrire più a lungo, inutilmente, che pensavo di avere diritto alla vita. La mia di vita. Che non potevo sopportare l’idea di vomitare per due mesi senza una giusta ragione. Che non volevo odiare il mio compagno, responsabile quanto me eppure non interessato, nei fatti, praticamente, dalle conseguenze.

Mi ascoltò. Mi disse «prenda il primo aereo. Vediamo di quante settimane è». Presi l’aereo il giorno dopo. Ero nei tempi e Viale accettò una richiesta che mi resi conto si sommava a tante, tantissime altre. Quell’uomo capì il mio dolore e decise di aiutarmi a soffrire di meno. Di certo non a non soffrire perché abortire è una sofferenza. Ma fece sì che la mia sofferenza non si prolungasse per altre settimane, inutilmente. Tornai a Roma il giorno dopo e la settimana successiva di nuovo ero a Torino.

Arrivai prestissimo alle Molinette, mi diedero una pastiglia, mi chiesero se preferissi restare per la notte in ospedale. Firmai per uscire. Poco distante mi aspettava una casa amica dove passare quelle ore infernali. E diversi numeri di telefono da chiamare per eventuali complicazioni. Non ci furono complicazioni. Non ce n’è quasi mai, di certo non più che in un aborto chirurgico. Ma non è stata una passeggiata. Un senso di greve malessere, una nausea incalzante, un mal di testa incessante, implacabile. Se bisognava pagare per aver scelto di non fare nascere un bambino non voluto io dico che ho pagato il giusto.

Il giorno dopo sono tornata in ospedale. Mi è stata data un’altra pillola e mi hanno messo a letto. Dopo qualche ora tutto era finito. Per un attimo mi è sembrato che anche l’Italia fosse un paese civile. Ma è stato breve. Di civile lì c’erano Viale e la sua equipe, accolti da una città laica che ogni tanto ricorda di avere un’anima sabauda. Sono tornata a Torino altre due volte, per i controlli, uno dei quali obbligatori, che la procedura prevede. Non è stata una passeggiata, mi sono accorta di tutto quello che accadeva e non è stato per niente piacevole. Ma sono contenta di averlo fatto e di averlo fatto lì, sostenuta da intelligenza e competenza. E da vera compassione.

04 agosto 2009

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