giovedì 6 ottobre 2011

GLI OTTANTA NERI 9



Non si sa quanto volesse essere punk, Jefferey Lee.
Sicuramente non voleva fare l'americano. Non ne aveva bisogno. Lui ERA americano.
Lui era, lo sentiva dentro, battere come un tamburo di guerra nativo, come una corda scordata della chitarra di Robert Johnson, come la polvere che frullava nella testa di Steimbeck, come il lamento di ogni cuore spezzato dal dominio bianco nonostante lui, Jeffrey Lee, fosse bianco.
Forse il punk era semplicemente l'ultima frontiera possibile da raggiungere col suo urlo, portando con sè il suo fardello pieno di blues, di country, di suoni nativi americani, di danze macabre e lascive, di alcool e droghe e di tutta quella "Bad America" che canterà più tardi, nel terzo disco di quell'ennesimo miracolo americano chiamato Gun Club.

Quando una storia comincia, quando il piede si muove per fare il primo passo, non è detto che si sappia dove e quando verrà fatto l'ultimo.
Ma quando il primo passo si muove invocando il fuoco dell'amore ("Fire of love" è il titolo del primo LP dei Gun Club) sai già che non ci sarà lieto fine.

E così brucia, brucia e si muove in un SEX BEAT, tanto per fare un primo passo che almeno metta in chiaro da dove si parte:





 "we can fuck forever, but you'll never get my soul" ok?

Jeffrey Lee wants to preach the blues.
E Jeffrey Lee prende uno dei salmi del blues antico, uno dei pochi lasciati da quel nero che si narra abbia venduto l'anima al diavolo ad un incrocio e che si narra sia morto per averlo voluto insegnare alla donna sbagliata. "Preachin' the blues" di Robert Johnson (o, dicono altri, del suo primo maestro Son House) in mano a Jeffrey Lee diventa un uragano di passione nera come la notte senza luna nel deserto. Un blues-punk dove ad affacciarsi dalla voce di Jeffrey Lee è il Blues in persona e pochi cazzi.




Uno - Due e il Fuoco dell'amore è già un incendio.
E più il disco va vanti più ci si sente bruciare. Il fuoco dell'amore implora ("Promise me"), divora ("She's like heroin to me") va a toccare passioni proibite ("For the love of Ivy" è il tributo della fissa del chitarrista Kid Congo Powers per la inimitabile chitarrista dei Cramps, Poison Ivy Roarscharch forse la donna più figa che abbia mai messo piede su un palco con una chitarra in mano), ballad nervose e demoniacamente "roots" come "Fire spirit" o ancora la "bad america" di "Jack on fire" e "Ghost on the highway", squarci di country e blues sporchi e polverosi, elettrici come i lampi sui canyon. Jeffrey Lee viaggia su un "Black train", d'altra parte, ormai chiunque abbia un cuore se n'è accorto e quando riprende il tradizionale "Cool drink of water" reimmergendosi nell'anima più nera del blues ti ritrovi a pregare per l'anima di Jeffrey Lee. Chiude "Goodbye Johnny" e Jeffrey Lee sembra salutare veramente allontanandosi verso un'orizzonte antico dove dormono gli spiriti.
Jeffrey Lee canta il blues suonando come un punk, Jeffrey Lee non ha una voce nera, Jeffrey Lee ha una voce sgraziata le cui note alte sembrano tigri affamate in gabbia vogliose di schiantare le sbarre per venire a mangiarci il cuore. Jeffrey Lee sembra piangere ad ogni acuto. Probabilmente Jeffrey Lee non vuole morire adesso.
Jeffrey Lee viene dai sobborghi di Los Angeles e giovanissimo si trasferisce dalle parti della San Fernando valley, conosce cosa vuol dire avere un cuore di lupo, è affamato e disperato, il fuoco dell'amore non si può certo estinguere nell'arco di un disco.
E così segue il secondo "Miami".
E ora perdonatemi, ma questa che apre il secondo disco dei Gun Club è, a modesto parere del sottoscritto, una delle più belle canzoni di sempre. Poche cose fra canzoni, libri, quadri, danze o rappresentazioni o metarappresentazioni dell'anima mi hanno toccato a fondo come questa cazzo di canzone.

Carry home, I have returned
Through so many highways
And too many tears

Oh but I didn't change, I just had to work
Yeah but I didn't change I just had to work
And now I'm home and now I'm home
Do you still want me, now that I'm home?



Dov'è tornato Jeffrey Lee?
La casa di Jeffrey Lee è ancora lì?
Jeffrey Lee vaga ancora sulla strada, è ancora in cerca dello spirito, è ancora divorato dal fuoco.
Non si spiega altrimenti una "Like calling up thunder" che eleva la sua voce lassù a cercare una qualsiasi cazzo di risposta.
Detto senza perifrasi "Miami" è il picco del Club del Fucile.
Capolavoro è un termine troppo abusato per riferirlo a questo disco. Ma chiunque voglia respirare l'aria e lo spirito di quei "generi" ma meglio sarebbe dire "espressioni dell'anima" provenienti dalla radice dell'Uomo e che nelle varie scansioni temporali si sono manifestate sotto la forma del blues, del rock 'n roll, del country, del punk, ebbene accenda le luci su "Miami".
Tuttora non sono sicuro di amare questo disco quanto merita.
E' un disco le cui scintille possono far male. E' una sbronza di tequila, rum e bourbon, è un viaggio allucinato e popolato di fantasmi, di droghe e mostri invincibili. E' un disco che cresce con gli anni e che continuerà a crescere ancora finchè la furia degli spiriti traditi dall'Uomo spazzerà via ogni cosa.



"Brother and sister", la "Run through the jungle" che i Creedence Clearwater Revival non avevano potuto fare, gli ululati da coyote triste di "A devil in the woods" che sfumano nei fraseggi acidi del finale, una "Texas serenade" dalla slide mortifera e poi quella che ha tutti i crismi per sembrare un rito nativo americano mescolato ad una maledizione voodoo, quella che Jeffrey Lee non riesce a scacciare dal suo corpo:




 E poi il "Bad indian" che cavalca un country-punk ansiogeno, il puntuale traditional "John Hardy", il "Fire of love" che stavolta brucia nell'omonima canzone, "Sleeping in blood city" e la bellissima "Mother of earth" che chiude un "Miami" che dell'omonima splendente città della Florida non ha nulla, ma proprio nulla.
Jeffrey Lee probabilmente sa di aver realizzato due grandissimi dischi, ma guai se questo placasse i demoni di Jeffrey Lee.
Non troverete, neanche tra i fans più accaniti dei Gun Club, qualcuno che ritenga il terzo disco, "The Las Vegas story", superiore a "Miami". Probabilmente neanche io. Ma c'è un però.
Ed il però è che "Miami" è un disco che non poteva non sfociare in "The Las Vegas Story".
Che è anche questo un grandissimo disco, sottovalutato proprio per colpa (o grazie, dipende dai punti di vista) di "Miami".
Intanto la formazione: Kid Congo Powers finalmente entra direttamente in scena dopo aver firmato con Jeffrey Lee "For the love of Ivy" nel primo disco. E al basso una delle mie icone sessuali femminili - ho gusti un pò così - Patricia Morrison, ex-Bags e successivamente nei Sisters of mercy e nei Damned, mentre Kid Congo Powers avrà una breve stagione con i Bad Seeds di Nick Cave, tanto per non farsi mancare nulla.

Patricia Morrison è Lei, per essere precisi.



Quindi, tanto per fare una breve digressione, mi scuseranno gli utenti appassionati di belle fighe, visto che già in questo blog ne metto poca o punta e quando ne metto come ora, ci piazzo 'sta vampirella.
Potete comunque rivolgervi a Sciuscia, o all'irrinunciabile Sei un idiota ignorante oppure farvi rellare un qualsiasi link da Free.it. enkey (col cazzo che vi linko un newsgroup). Se poi volete andarci ancora più pesi saprete di sicuro dove andare. Fine della digressione.

Dicevo, "The Las Vegas Story".

Una voce alterata introduce "Walkin'with the beast" e già Jeffrey Lee mette in chiaro che lui è ancora in giro, a camminare con la Bestia. E poi "Eternally is here" che sembra presa di pacco da "Miami" con un Kid Congo alla slide PERFETTO. e poi "The stranger in our town"; questo pezzo è il sintomo.
Di cosa, basta sentire la voce di Jeffrey Lee. Come sempre sgraziata, come sempre APPARENTEMENTE stonata, come sempre ASSOLUTAMENTE viva e straziata.




Jeffrey Lee ha intuito che qualcosa sta per rompersi. La ruvidezza punk di "Fire of love" e "Miami" è scomparsa, anche se pure i pezzi più sottotono, se così si può dire di bellissime canzoni come "Moonlight motel" e "My dreams", non si discostano dalla radice e dal marchio Gun Club.
Da brividi l'interpretazione della gershwiniana "My man's gone now" laddove la voce di Jeffrey Lee è alcoolica come mai ma soprattutto il finale, "Give up the sun".
Spegnete il sole, Jeffrey Lee si sta perdendo.




 E difatti la band, dopo un tour con Siouxsie and the banshees, si rompe.

Jeffrey Lee vaga sotto una cattiva luna annebbiata dall'alcool e dall'eroina, ma trova il tempo di dare alle stampe il suo primo album solista: "Wildweed".
Disco controverso ma amatissimo dal sottoscritto, dove Jeffrey Lee rispolvera l'acustica e ricerca la sua anima ripartendo dalla radice. Ma l'inquietudine sale fino a fargli riprendere le briglie dei Gun Club, che riforma l'anno successivo. E' il 1987 quando esce "Mother Juno", prodotto da Robin Guthrie dei Cocteau Twins (!) e con una formazione comprendente la compagna di Jeffrey Lee, Romi Mori, il redivivo Kid Congo Powers e l'ex- Clock DVA Nick Sanderson.
Kid Congo termina le registrazioni di "The good son" con Nick Cave & the bad seeds e torna definitivamente a casa di Jeffrey Lee. Il disco pare funzionare, ma passano tre anni prima di "Pastoral hide and seek" seguito dall'ep "Divinity".
Personalmente non ritengo i lavori successivi a "The Las Vegas Story" all'altezza dei precedenti, nondimeno gli episodi più che degni di menzione non mancano. Ma Jeffrey Lee vaga. Alterna le sue attenzioni sul suo materiale solista alla sua creatura Gun Club, cambia rotta cercando di sconfiggere i suoi demoni senza riuscire a trovare una qualche specie di pace, forse perchè sa che coloro che accendono il fuoco dell'amore la pace non la troveranno mai. Escono l'ep "Death party" e, nel 1993 l'epitaffio, "Lucky Jim".
La sua compagna Romi Mori lo lascia, Jeffrey Lee rimette il suo corpo all'alcool ed all'eroina, nel frattempo si concede un lungo soggiorno londinese, chiede breve asilo al palco di Nick Cave, mette su qualche show con il fido Kid Congo ed altri valorosi, poi torna a Los Angeles.
I Gun Club sono un ricordo sempre più lontano.
Mark Lanegan lo sente per telefono nel marzo 1996, sembra stare meglio, sta per andare a trovare il padre, parla di progetti anche se la sua salute è molto, molto peggiorata. Jeffrey Lee parte e lì, nella casa paterna, il 31 marzo 1996 viene colpito da emorragia cerebrale e muore.
Jeffrey Lee ha finalmente fatto l'ultimo passo prima di riposare con gli spiriti rincorsi una vita.

Do you still want me, now that I'm home?




9 commenti:

Bob Bulgarelli ha detto...

Non mi piace il genere che piace a te, ma, comunque, volevo salutarti. Ciao.

sassicaia molotov ha detto...

@roby: sono pochi quelli a cui piace questo genere....ciao!!!

Leandro Giovannini ha detto...

bel ricordo di un grande ragazzo. lucky jim la mia preferita, ma anche jack on fire.

Sitka ha detto...

Bellissimo post, mi hai dato una bella lezione per cui studierò a fondo... il genere mi piace, ma io non ho un genere preferito.
'giorno. :)

Sitka ha detto...

... bella Patricia, certo che se avesse avuto le mie occhiaie, sarebbe stata ancor più vampirona. ;)

Overthewall91 ha detto...

Bellissima lettura per far rivivere un grande gruppo.

Ubi Minor ha detto...

un po' incasinato, ma bello assai

Blackswan ha detto...

Un gruppo follemente decisivo. bel post !

sassicaia molotov ha detto...

C'è un documentario sulla vita di Jeffrey Lee Pierce, "Ghost on the higway: the story of Jeffrey Lee Pierce and the Gun Club" che spero di vedere prima o poi;
@Dea: Patricia ora viaggia sui 50, se non è una vera vampira dovrebbe avere dei marsupi, considerando con quale gente ha continuato a suonare...non avere un genere preferito è un ottimo segno eh...
grazie degli apprezzamenti e sì, ha ragione Ubi Maior, quando scrivo di qualcosa che mi emoziona a questi livelli tendo a incasinarmi ;-)